di Federica Di Castro

Il bianco può suggerire la luce oppure la sua contrapposizione, il buio. Ma può anche indicare la sottile trama di relazione lucebuio, i confini, le ripetizioni, gli spostamenti. La relazione della luce con gli altri colori anche insediati negli oggetti è sempre una relazione tattica, di cattura improvvisa, di simbolica introduzione di senso. Una partita serrata, scoperta, di disvelamento nel colore. Ma poi la luce si ferma, si posa, cristallizza la forma, ne fissa i canoni sul fondo.

Ma il bianco è luce. Agire sul bianco è partire dalla luce segnando in essa le tracce i percorsi del buio. I segni, nella luce. Se l’ipotesi fosse quella di una totale felicità il segno non avrebbe senso, né la comunicazione per esso. Ma si parte da un confine preciso, umano, la coscienza dell’artista e i suoi bisogni espressivi. Portare all’esterno la propria coscienza.

Non per dare ad essa forma, per imprigionarla, chiuderla, al contrario perché si apra ed apra, per mezzo di segno sulla luce, la strada ad altre forme. Oggetto etichettato per essere soltanto se stesso non oltre la soglia del vero chiaro universo sensibile, l’immagine si porge prima dell’invenzione. Come possibilità di sconfinamento da immagini note a immagini ignote, non ancora apparse ma appena suggerite all’occhio dell’osservatore, come possibile trasformazione o deformazione di quella forma che sta osservando.

Forma nota ripeto, rassicurante.

Ai limiti dell’astrazione geometrica (la linea, il punto non generano timori ma certezze: sono), il pensiero sosta, si perde, naviga. Perché la forma ha una storia. A monte di quella forma è la ragione che la fa esistere ancora una volta davanti ai nostri occhi, spettro inusitato di memoria ripetibile in infiniti sbocchi e richiami. Nata sul rettangolo del foglio, della carta, non ripetizione ma costruzione di se stessa. Oggetto mimato solo concettualmente, ha un assetto che è esito del lavoro della mano.

Si appoggia sul fondo, sollevata da esso, scaturita dal fondo. Non è come per ogni opera grafica seriale la copia di una matrice come risoluzione di contrasti. E’ termine di un’azione che ogni volta si ripete, ogni volta nuova per ogni nuovo foglio. Tensione di luce, rigore di linea, occhio, mano. Lo strumento è un bisturi, solleva gratta graffia la carta per arricciarne gli strati sottili e vivificarli offrendo alla struttura del foglio la possibilità di un assetto diverso. Nel quale la carta si adagia scoprendo ed affermando l’ipotesi di altri equilibri. Evidenzia, al di là dell’operazione grafica, la carta, una storia materica di spessori e profondità. Tanti strati come la pelle, capacità di tensione e di raggrinzimento. Densità, addensamento, contrazione, espansione. Oltre che alla pelle fa pensare alla stoffa, fa pensare al legno. Opportunamente usata sarà una struttura che intende la profondità. Ne esplora i dettati.

Addensandosi sulla superficie prende corpo, volume, genera ombre, solchi di buio come feritoie ai lati dell’oggetto o percorrenti lo stesso. La materia è tanto “riscaldata” dal lavoro della mano e del coltello che la mano guida, da sembrare una materia cotta, ceramica, terracotta, da rinviare il pensiero ad antichi forni, lungi dai luoghi concettuali in cui avviene e si prova.

Suggerisce non il raffreddamento del pensiero, l’area gelata della sua cristallizzazione, ma il caldo della cottura, il fuoco del forno.

Possiede dunque la capacità di contenere emozione umana e di trasmetterla di trasferirla all’esterno investendone l’osservatore. Tra l’apparenza incontestabile della forma e l’occhio sta quell’inusitato (e perciò tanto ricco) passaggio dall’archetipo alla sua accezione sensibile, dal valore matematico al valore espressivo, dalla formula al suo senso comunicante. Perciò la serialità non è pensabile in questo caso se non a partire dalla ripetizione di un atteggiamento espressivo. Il foglio solcato dal segno, il suo valore di luce totale, volutamente interrotto, l’immissione di un messaggio extracodice per mezzo della mano, la sua decodificazione per mezzo dell’occhio. E’ in sostanza un discorso sulla pittura, sulla sua storia analogica (roccia, parete, muro, tela, foglio), ma oggettiva, di immagine che si determina nella relazione con lo spazio su cui comincia a esistere nel momento in cui l’artista si avvicina ad esso per interromperne il discorso continuo. Il luogo, lo spazio,come materia, origine dell’opera. Quel luogo, quello spazio sono la matrice. La matrice può anche essere sempre, allora, la stessa, la variante sarà nell’approccio nella restituzione sensibile della cosa oltre la trama del segno e lo specchio dell’occhio, nell’assetto ultimo di opera, di realtà che si è separata una volta per tutte dalla sua matrice. Che si auto-afferma in virtù soltanto della sua presenza continua.

Federica Di Castro

 Personale – Studio Arti Visive (Roma, 1983)