di Maddalena Carnaghi
Mi piace favoleggiare dei fatti artistici di Vito Capone mescendoli con quelli della Clizia che Eugenio Montale sceglie come protagonista di un suo racconto nella “Farfalla di Dinard”. Clizia giunge a Foggia un po’ annoiata e, avendo molte ore d’attesa prima dell’arrivo del prossimo treno, s’assopisce e sogna di trasformarsi in ragno. La sua percezione si altera, sente di poter guardare in più dimensioni, cambia diametralmente punto d’osservazione, comincia a muoversi leggiadra facendo uso dei suoi multipli appoggi e, finalmente, si sente libera.
Vito raggiunge Foggia dopo gli anni dell’Università di architettura a Napoli e, giovanissimo, comincia a dipingere su carta lasciandosi alle spalle l’accademismo; dipana subito il segno con un gesto deciso, forte, che si propaga sul foglio e imprigiona lo sguardo dell’osservatore. Predilige i colori eleganti della tradizione e, in particolare, usa le “crete compresse” che si connotano per il segno morbido a cui lui imprime, però, un moto vorticoso ed energico. Mescola sanguigna, nero e seppia nei Guazzi, così chiama questi talentuosissimi interventi che hanno il coraggio della non-finitezza sia nel nome, sia nel lasciare che i corpi siano solo intuibili e che le intelaiature prospettiche si riducano a sospetti. Affronto ultimo alla forma sono quelle nebulose biancastre che offuscano le crete condite con le tempere diluite; paradossalmente evidenti, esse sono dovute a cancellature che emergono e si stagliano sulla superficie. La sua ricerca di indeterminatezza raggiunge esiti altissimi nella serie di 28 opere pensata per accompagnare il libro Sacco e Vanzetti, realizzato da Salvatore Ciccone, dove la forza del segno prorompe e spazza via tutto il resto. Sembra quasi un indizio, un disvelamento, delle trasformazioni che da lì a poco sospingeranno il suo fare arte in altre direzioni il fatto che usi le crete: qualcosa di solido, materico, ma che nel divenire strumento artistico si rivelano fragili e volatili…
Ecco che, come Clizia durante la visione onirica, cambia percezione delle cose, si libera della dimensione razionale e libra verso la conquista di uno spazio nuovo. Si muove nel vuoto, lavorando nella sottrazione formale di ciò che non serve più: basta colore, basta figurazione, basta disegno. Ora il suo segno-gesto incide la carta, la penetra, in un gioco di luce silente che investe la “casualità di esattezza”, come ama ripetere l’artista. “Un ordinato movimento che si creava da sé, senza che lei s’affaticasse a dargli impulso o direzione”, scrive Montale a proposito della metamorfosi della sua musa, ma anche per l’arte di Capone si potrebbero usare le stesse parole. È quel non so che, “nescio quid” lo chiamava Petrarca, quella capacità dei grandi artisti di inserire delle imperfezioni precise e perfette nelle composizioni
Comincia a scolpire la carta negli anni Ottanta: inizialmente gli dà la forma di foglio, poi di libro e, dieci anni più tardi, si libera da ogni supporto per avvolgere gli spazi che ci circondano. Le forme degli anni Novanta paiono ammiccare al design: colonne intarsiate, mezze ruote istoriate, rotoli dal sapore antico, bassorilievi con inserti oggettuali, rosoni che paiono staccati dalle cattedrali, sculture indossabili e, persino, uno straordinario e struggente Letto a grandezza naturale (di carta riciclata fatta a mano, filo, giunchi, cannucce e canapa). È bene, però, non farsi trarre in inganno perché il decorativismo fine a se stesso non c’entra: si tratta di conquiste spaziali, di riappropriazioni dell’oggettualità atte a restituire bellezza e poesia alle cose. Dichiara Vito nel 1991: “Continuo a liberarmi da dieci anni di tutto quello che mi sembra esasperato, esagerato, dal colore abusato, dalle forme già viste e sempre più aggrovigliate, da una confusione di stili, di correnti, di tendenze, forse tutto riconducibile ainostri tempi dai quali cerco di sottrarmi per illudermi, forse, di sentirmi più libero”.
Tra le opere di Vito, le più conosciute sono i Libro-Libro, una serie di sculture imbevute di carta e luce, che hanno rappresentato il libro d’artista nella celebre esposizione: “The Artist and the Book in Twentieth-Century Italy” che si tenne al MOMA di New York nel 1992. Al solo nominarlo, il Libro d’artista, pretenderebbe una certa introduzione perché la sua categoria non è ancora stata completamente storicizzata. Non me ne vorrà, ma non è mia intenzione entrare nel merito del dibattito sulla sua natura: ci si limita al dire che, negli anni Settanta, dalla negazione del libro come istituzione-simulacro, nasce nel mondo dell’arte la volontà di appropriarsi di questo spazio altro, oramai svuotato dal vecchio significato. Questo nuovo terreno di esplorazione risponde all’esigenza degli artisti di aumentare la percettività dei loro interventi e, quindi, di avvicinarli allo spett-attore. Il Libro-Libro è una vera e propria euforia dei sensi: suscita una irrefrenabile catena di domande e di istinti perché chi vi si trova davanti, non fosse per la teca, non resisterebbe all’incontenibile desiderio di affondare i polpastrelli nella cellulosa.
È soprattutto il mistero della materia a scatenare una tempesta di interrogativi: c’è chi lo ha visto in foto e si è chiesto se fosse fatto di grano o se fosse commestibile; c’è stato qualche scettico che non ha creduto che gli ingredienti indicati dall’artista fossero solamente naturali; c’è il collezionista che lascia che la polvere del tempo si fonda con l’opera e, infine, c’è colui che vorrebbe collocare questi lavori alle intemperie per vederne l’evoluzione. Un’operazione museale sapiente che ha saputo cogliere le istanze che surgono da questi oggetti si è realizzata nel 1995 alla Japan Paper Academy di Kyoto con la mostra, dal titolo inequivocabile, “Touch please”. I Libri-Libri accolgono i dubbi, istigano una sanissima curiosĭtas: c’è stato, addirittura, uno studioso dell’area Mitteleuropea che ha creduto e chiesto al nostro artista se fossero tavole di decriptazione dell’antico fārsī. Del resto, sono così pieni di fascino che li si fraintende persino: ci si convince, prendendo chissà l’origine più antica della parola curiosità- quella che viene da cura-, che siano opere fragilissime e altamente deperibili, anche se non è affatto vero. Forse lo studioso che ha pensato fossero la decodifica di testi antichi non si era poi così sbagliato su un punto: queste opere interrogano la lingua e sono -anche- una questione di linguaggio. Perché queste sculture sono fatte del materiale dei libri, sono fatte come i libri, ospitano delle immagini e dei segni e si offrono per essere lette. L’origine della parola leggere, infatti, dal latino ‘lègere’, vuol anche dire “raccogliere segni”; ecco che, anche etimologicamente, l’opera di Vito ha colpito nel segno. Anzi, ha fatto due volte centro, come marca il titolo: è libro nella sua essenza e lo è altrettanto nella sua forma (come i simboli per Ferdinand De Saussure che hanno una correlazione stabile tra Signifié e Signifiant) ed è, tautologicamente, soggetto e oggetto della sua arte. Inseguendo, a ritroso, l’intreccio di altre parole, si scova che, ad un certo punto della sua storia, la parola liber (libero) va a fondersi o con-fondersi con la parola libro. Vito ha saputo dare effettiva definizione visiva al momento dell’incontro delle due parole nel Libro-Libro: la libertà cercata e poi raggiunta (anche attraverso privazioni formali), ha alleggerito il libro dal peso della sua storia, sebbene lo abbia mantenuto fedele a se stesso.
Vito ordisce la sua “trama”, con quella sapienza del quotidiano, nutrita del tempo e dell’esperienza dei suoi luoghi che la rendono un guazzabuglio bellissimo di arte e vita. Ha imparato a processare la carta, a mischiarla coi ricami della tradizione pugliese e con la natura che protegge la materia e la conserva. La sua rettitudine si esplica in quello che è ed in quello che fa, così la sua coerenza e la sua finezza di pensiero-azione. Se vogliamo dirla tutta, anche il suo scoppio burberocompare nella sua arte e si riconosce in quel guizzo vivace che marca di azzardo le sue composizioni.
Mi sovviene quel saggio breve che chiude il “Divenire delle arti” di Gillo Dorfles in cui il grande critico si auspica una fusione di etica ed arte: ecco, questo importante incontro, che anch’io desidero per l’arte tutta, lo ravvedo nel lirismo operoso di Vito Capone.